mercoledì 21 ottobre 2009

RECENSIONE SU LIBERO: Storia e leggenda dei Lombardi che fecero l’impresa

Storia e leggenda dei Lombardi che fecero l’impresa

di Miska Ruggeri

Pubblicato il giorno: 21/10/09

Con le iniziative politiche di Umberto Bossi e il recente film di Renzo Martinelli, le vicende della Lega lombarda sono ritornate nell’immaginario collettivo di gran parte degli italiani. Certo, non come durante il Risorgimento, quando la lotta contro Federico I di Hohenstaufen fu esaltata dai patrioti (dalle tele di Massimo D’Azeglio al Canto degli Italiani di Goffredo Mameli, dalla ballata “Il giuramento di Pontida” di Giovanni Berchet al Primato morale e civile degl’Italiani di Vincenzo Gioberti e all’opera di Giuseppe Verdi “La battaglia di Legnano”) quale esempio di liberazione dal giogo straniero, visto che ora nel mirino c’è piuttosto il centralismo romano, ma la Barbarossa-reinaissance è evidente.Come la necessità di un saggio divulgativo che spieghi quanto di vero e quanto di leggendario sia contenuto nell’epopea dei Comuni ribelli all’Impero.

Un compito ben assolto dalla giornalista e medievista Elena Percivaldi con I Lombardi che fecero l’impresa. La Lega e il Barbarossa tra storia e leggenda (Àncora, pp. 230, euro 16), dove si ricordano molte cose troppo spesso trascurate.

Innanzitutto, che nelle cronache coeve abbondano errori, manipolazioni e omissioni e che quindi queste non vanno prese per oro colato. Ma sono sempre la fondamentale base da cui partire. Ebbene, a proposito del celebre «giuramento della concordia», nessuna fonte lo data al 7 aprile 1167 (semmai al 27 aprile) e nessuna nomina, neppure in modo indiretto, il monastero di Pontida. A creare dal nulla il mito è il milanese Bernardino Corio nella sua Historia Patria apparsa nel 1503, che riecheggia, modificandola qua e là, la narrazione dell’anonimo continuatore di Acerbo Morena.

Inoltre, un guerriero di nome Alberto da Giussano non è mai esistito. Nessun documento ufficiale, né prima né dopo la battaglia di Legnano (29 maggio 1176), lo menziona. A inventarlo è un frate domenicano del Trecento, Galvano Fiamma, cappellano alla corte di Galeazzo Visconti, che a un certo punto lo tira fuori dal cilindro come deus ex machina dello scontro (insieme a due fratelli, Ottone e Rainero, poi scomparsi nelle versioni successive del racconto): è il comandante della Compagnia della Morte, corpo scelto di 900 cavalieri milanesi, alti e prestanti e con un anello d’oro, che avevano giurato con il sangue di «combattere l’imperatore in qualunque luogo e circostanza». E anche il carroccio originale, il carro sacro simbolo della comunità trainato da buoi e con una croce d’oro svettante sull’albero, non aveva certo la campana della tradizione (Martinella per i milanesi, Berta per i padovani, Nola per i cremonesi ecc.).

http://www.libero-news.it/articles/view/584086

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